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Il villaggio di Matmata, con un’architettura di un altro pianeta

C’è un angolo di mondo che sembra appartenere a un sogno antico o a un set cinematografico fantascientifico. E, in un certo senso, entrambe le cose sono vere. Stiamo parlando di Matmata, un villaggio berbero incastonato tra le colline aride della Tunisia, dove il paesaggio brullo si apre all’improvviso su uno scenario surreale, tanto terrestre quanto ultraterreno. È qui che la sabbia e il cielo si incontrano per raccontare una storia ricca di ingegno, adattamento e sopravvivenza.

Se agli appassionati di cinema il nome evoca subito le iconiche scene della saga di Star Wars, è perché George Lucas, colpito dalla singolarità delle architetture, scelse proprio Matmata per rappresentare il pianeta Tatooine, casa di Luke Skywalker.

Ma ciò che davvero colpisce di Matmata va oltre il fascino cinematografico: è un’autentica meraviglia dell’ingegno umano, un esempio straordinario di come l’architettura possa fondersi con la natura per proteggere, resistere e, perché no, incantare.

La vita sotto la terra: le case troglodite

A prima vista, Matmata sembra un villaggio fantasma. Colline di terra bruciata, nulla all’orizzonte. Ma è solo quando ci si avvicina che il paesaggio si svela davvero, e lo fa tramite crateri, aperture nella roccia e misteriosi accessi che si aprono su un mondo sotterraneo. Le case troglodite, scavate nella roccia friabile per una profondità di sei o sette metri, appaiono solo a uno sguardo attento: sono, infatti, mimetizzate alla perfezione, quasi come se la terra le avesse “inghiottite” per proteggerle dal tempo e dal clima.

Tali abitazioni ancestrali si articolano attorno a un cortile centrale scavato nel terreno, da cui si aprono piccole stanze chiuse da tende spesse. Non c’è nulla di casuale: ogni scelta architettonica risponde a un’esigenza climatica precisa. Qui, dove il sole è implacabile, vivere sotto terra significa garantirsi frescura d’estate e tepore in inverno. Gli ambienti sono davvero confortevoli: l’aria è fresca, le pareti conservano una temperatura costante, e il silenzio ovattato delle profondità dona una sensazione di quiete incredibile.

Ogni casa ha la sua porta in legno di palma, scelta non solo per la resistenza, ma anche per la fibra densa che non richiede manutenzione frequente. Sull’ingresso si trovano spesso simboli propiziatori dipinti a mano: occhi stilizzati, pesci, mani aperte, segni carichi di significato, messaggi di protezione contro il malocchio e inviti alla buona sorte.

All’interno, la vita si svolge secondo un ordine antico: una stanza per dormire, una cucina spartana, una dispensa e uno spazio dedicato alla macinazione del grano, dove due grandi pietre si sfregano l’una contro l’altra con un movimento che sa di rituale, di gesti ripetuti da generazioni.

Un popolo tra modernità e tradizione

Matmata, il set di Guerre Stellari

Fonte: iStock

Sorprendente set di Guerre Stellari

Nonostante il fascino arcaico delle case troglodite, non tutti gli abitanti di Matmata vivono ancora nelle dimore sotterranee. Dopo le inondazioni improvvise e devastanti che colpirono la zona in passato (eventi tanto rari quanto disastrosi) molte famiglie accettarono l’invito del governo tunisino a trasferirsi in case moderne, più sicure ma certamente meno poetiche.

Tuttavia, una parte della popolazione ha scelto di restare. Alcuni per orgoglio identitario, altri per necessità, ma tutti con la consapevolezza di custodire un patrimonio unico al mondo. Oggi molte di queste abitazioni sono visitabili, aperte al pubblico da famiglie che con cortesia e discrezione invitano i viaggiatori a scendere nella loro quotidianità.

Accade spesso che siano proprio i bambini a offrire con spontaneità una visita guidata della propria casa. E quando, alla fine del tour, viene offerto un tè caldo (preparato con l’acqua piovana raccolta in antiche cisterne scavate a mano) si comprende quanto ogni dettaglio sia frutto di una relazione profonda tra uomo e ambiente. L’ospitalità qui ha il sapore del miele mescolato all’olio, spalmato su una focaccia fragrante: un gesto semplice che racconta tutto.

Visitare Matmata significa toccare con mano una cultura millenaria, camminare dentro la terra e sentirsi piccoli davanti all’ingegno umano. Ma significa anche assumersi una responsabilità: quella di rispettare e sostenere una comunità fragile, che spesso vive con poco e apre le porte con generosità.

Un piccolo gesto (come una mancia o l’acquisto di un oggetto artigianale) può fare la differenza per chi, con dignità e fierezza, continua a mantenere vive le radici di un popolo.

A due passi dal deserto: Gabes e il profumo delle spezie

Chi si spinge fino a Matmata non può rinunciare a una deviazione verso la costa, in direzione di Gabes, distante appena un’ora di viaggio. Lì, nella città industriale che vive tra mare e oasi, spicca un piccolo mercato delle spezie che merita una sosta. Le bancarelle sono un tripudio di colori e aromi: cumino, paprica, coriandolo, e la polvere di henné (prodotta dalla macinazione delle foglie dell’albero di henné) che viene usata da secoli per tingere i capelli, rafforzarli, e per decorare mani e piedi con motivi raffinati.

È un altro piccolo tassello di un mosaico culturale che affonda le sue radici nella terra, nei gesti e nei profumi.

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Cascata di Maletsunyane: il velo d’acqua che scende dal cielo, tra leggende e silenzi d’Africa

Nel cuore del Lesotho, piccolo regno incastonato tra le montagne dell’Africa australe, la natura è ancora regina. Qui non ci sono grattacieli né città frenetiche come nel vicinissimo Sudafrica, ma altopiani vertiginosi, villaggi di pietra e silenzi che si stendono come mantelli sulla savana. Il tempo sembra aver rallentato, seguendo il passo tranquillo dei pastori a cavallo avvolti nei basotho blanket, il simbolo identitario di un popolo fiero del suo passato e delle tradizioni, che vive ancora oggi secondo ritmi antichi.

Eppure, in Lesotho non siamo lontani dal Sudafrica moderno e pulsante, dove città come Johannesburg e Pretoria battono al ritmo dell’amapiano, il sound elettronico che mescola deep house, jazz e voci zulu. In questa geografia fatta di contrasti, il Lesotho si staglia come un altare naturale, un santuario di autenticità. E tra tutte le sue meraviglie, una brilla su tutte: la Cascata di Maletsunyane, uno spettacolo naturale che lascia senza fiato e che custodisce storie e leggende.

Maletsunyane: la cascata sacra del Lesotho

Alta 192 metri, la Cascata di Maletsunyane è una delle più imponenti e spettacolari cadute d’acqua ininterrotte del continente africano. L’acqua si tuffa con un boato da un altopiano di basalto nero in una gola profonda, generando un rombo che rimbomba tra le pareti rocciose e crea una colonna di vapore visibile a chilometri di distanza. Non a caso, il nome del villaggio vicino, Semonkong, significa “luogo del fumo”.

Ma Maletsunyane non è solo un fenomeno naturale in Africa: è un luogo sacro. Le leggende locali narrano che il bacino alla base della cascata sia abitato dagli spiriti degli antenati, e che il fragore dell’acqua sia in realtà il pianto delle anime. I guaritori tradizionali, i sangoma, vi conducono ancora oggi rituali spirituali, tra danze, tamburi e canti.

Info pratiche e curiosità locali

La cascata si trova nei pressi di Semonkong, un villaggio a oltre 2.200 metri di altitudine, immerso in un paesaggio mozzafiato di gole, praterie e pareti basaltiche. Per raggiungerla si parte solitamente da Maseru, la capitale del Lesotho, distante circa 120 km. Il viaggio, che richiede 4-5 ore di fuoristrada, è già di per sé un’avventura: si attraversano altipiani erbosi, fiumi senza ponti e villaggi che sembrano sospesi nel tempo.

Una volta a Semonkong, si può raggiungere la cascata con un trekking a piedi o con un’escursione a cavallo, come fanno i locali. L’esperienza è intensa e suggestiva, soprattutto all’alba o al tramonto, quando la luce scolpisce le pareti rocciose e l’acqua si tinge d’oro.

Per i più coraggiosi, Maletsunyane offre anche l’adrenalina: da qui si può effettuare il base jump commerciale più alto del mondo, una discesa in corda doppia di quasi 200 metri nel vuoto, organizzata da guide esperte. Ma per la maggior parte dei visitatori, la vera magia sta nella contemplazione silenziosa: un momento di pace, immersi nella natura, lontani da tutto.

La cucina locale è semplice e genuina, in parte simile a quella del Sudafrica: piatti a base di mais, fagioli, zucca e carni alla brace. Nei lodge si possono gustare anche piatti internazionali con un tocco africano, accompagnati da birre locali e dal celebre Maluti Lager, prodotto nel vicino Sudafrica.

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Dal Marocco all’Asia centrale: le location mozzafiato di Rambo III

Le trafficate strade di Bangkok, i sereni monasteri buddisti di Lamphun e gli affascinanti paesaggi desertici dell’Arizona sono stati luoghi testimoni di un successo. Quando si parla di film d’azione iconici degli anni ’80, Rambo III occupa un posto d’onore. Diretto da Peter MacDonald e interpretato da Sylvester Stallone nel ruolo del veterano di guerra John Rambo, il film si distingue non solo per le sue sequenze esplosive e i combattimenti spettacolari, ma anche per le sue ambientazioni mozzafiato. In questo terzo capitolo Rambo è in missione per salvare il suo ex amico e comandante, il colonnello Sam Trautman (Richard Crenna) che è stato catturato dalle forze militari sovietiche.

Sylvester Stallone raccontò al Los Angeles Times di aver valutato diverse location nel sud-ovest americano prima di decidere che l’atmosfera fosse quella giusta. “Per un po’ abbiamo parlato di girare questo film in Arizona o in Nevada” ha detto l’attore, “ma poi ho pensato: ‘Ehi, cosa faranno tutti? Giocheranno a dadi ogni sera dopo le riprese?‘”. La troupe si concentrò quindi sulle location all’estero. Secondo il Times, visitarono Italia, Marocco e Australia, costruirono e demolirono set per un valore di 5 milioni di dollari in Messico prima di partire per Israele.

Chiang Mai Thailandia

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Chiang Mai, Thailandia

Dove è stato girato

Grazie a una sapiente combinazione di location naturali, set costruiti e trucchi cinematografici, il film riesce a dare vita a un Afghanistan drammatico e cinematografico, pur restando ben lontano dai suoi confini. Crenna ha affermato che c’era una tensione autentica durante le riprese in Israele a causa delle tensioni persistenti: “Ogni giorno attraversavamo un posto di blocco militare per raggiungere il set, poi indossavamo i nostri costumi da soldato e ‘andavamo in guerra‘” ha detto. “Poi, quando i jet volavano sopra di noi, guardavamo in alto e ci chiedavamo dove stessero andando, o dove fossero stati“. Alcune parti del film sono state girate vicino a Sodoma, dove le temperature raggiungevano i 50 gradi Celsius, e il cast e la troupe, così numerosi, consumavano quasi 1600 litri d’acqua al giorno.

La posizione remota del set ha presentato anche sfide logistiche. Trasportare la pesante attrezzatura militare utilizzata nel film è stato difficile e costoso, e il cast e la troupe hanno dovuto alloggiare a quasi un’ora dal set che a sua volta distava mezz’ora dagli stabilimenti di produzione. Molte delle scene che nel film rappresentano il paesaggio afghano sono state girate in Israele, in particolare nel deserto del Negev e nella regione montuosa del Golan. Il kibbutz Eilot, vicino a Eilat, ha ospitato alcune sequenze chiave. La vasta distesa di rocce, sabbia e cielo terso si è rivelata perfetta per rappresentare la polverosa frontiera afghana. Anche la città vecchia di Jaffa e alcune zone rurali nei pressi di Tel Aviv sono state utilizzate per simulare villaggi e avamposti sovietici, dimostrando la versatilità delle location israeliane nel ricreare ambientazioni storiche e geografiche lontane.

Thailandia: il rifugio spirituale di Rambo

Il film si apre con un Rambo ritiratosi nella pace della Thailandia, dove si dedica alla vita monastica e combatte con i bastoni per sport. Queste sequenze sono state girate a Chiang Mai, nel nord della Thailandia, in particolare nei pressi di templi buddisti autentici e in paesaggi lussureggianti. Il contrasto tra la pace spirituale del tempio e l’imminente richiamo alla guerra contribuisce a rafforzare il dilemma interiore del protagonista.

La scena iniziale ricca d’azione di Rambo III si svolge nel cuore della vivace capitale thailandese, Bangkok. Il colonnello Sam Trautman torna indietro per reclutare John J. Rambo per la sua missione. Il film ci presenta Rambo attraverso la sequenza del combattimento in cui emerge trionfante di fronte a una folla affascinata in una struttura in rovina. Questa scena mozzafiato è stata girata vicino al tempio buddista di Wat Sangkrachai Worawihan, nel quartiere Wat Tha Phra di Bangkok. La capitale thailandese è una metropoli vivace con una miriade di templi, una vivace cultura di strada e un vasto sistema di canali alimentati dal fiume Chao Phraya, popolato di barche.

Arizona

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Arizona

La maestosa area di Rattanakosin, con il suo grande palazzo e il venerato tempio Wat Phra Kaew, è scavata nel fiume che la costeggia. Nelle vicinanze si trova il famoso tempio Wat Pho, noto per il suo enorme Buddha sdraiato. Dall’altra parte del fiume, lo straordinario tempio Wat Arun affascina con le sue ripide scalinate e la caratteristica cima in stile Khmer. Il più grande aeroporto internazionale di Bangkok, Suvarnabhumi, è il punto di atterraggio perfetto per un volo verso questa destinazione.

Arizona e Stati Uniti

Anche se in modo molto limitato, alcune brevi sequenze furono girate negli Stati Uniti, in particolare in Arizona. Gli scenari desertici dell’Arizona furono utilizzati per completare alcune riprese aggiuntive, sfruttando l’ambiente simile ma più accessibile rispetto alle location mediorientali. Rambo riesce a uccidere Zaysen lanciando un carro armato contro l’elicottero del colonnello sovietico, che inizialmente aveva cercato di danneggiare con una molotov consegnatagli da un uomo a cavallo. Sorprendentemente, Rambo sopravvive all’esplosione che ne consegue ed emerge dal carro armato.

Al termine della battaglia, Rambo e Trautman salutano i loro alleati mujaheddin e lasciano l’Afghanistan per tornare a casa. Questa sequenza culminante è stata girata a Fort Yuma, situato nello Yuma Territorial Prison State Historic Park in Arizona. Il carcere territoriale di Yuma fu inaugurato nel 1876 e da allora è stato immortalato in diversi film e serie tv. Oggi, questo sito storico è gestito e mantenuto come museo dall’Arizona State Parks.

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Roma, la città con più obelischi al mondo

Roma è la città con più obelischi al mondo, ben 13: supera anche le più importanti città egiziane, la terra in cui questo particolare tipo di monumento è nato. La maggior parte degli obelischi arrivarono a Roma proprio dall’Egitto, dopo la battaglia di Azio del 31 a.C, ma altri sono stati poi fabbricati su imitazione dagli stessi romani, utilizzando il granito egizio e spesso copiandone i geroglifici con errori di trascrizione. Se ci si posiziona al centro dell’incrocio tra via del Quirinale e via delle Quattro Fontane, è possibile vedere con un colpo d’occhio, contemporaneamente, tre obelischi: Quirinale, Sallustiano, Esquilino. È l’unico punto nel mondo dove ciò sia possibile.

Gli obelischi sono stati conquistati come bottino di guerra e simboli di potere, ma in un certo senso hanno a loro volta conquistato Roma: i romani erano molto affascinati da questi monumenti così grandiosi, che per gli Egizi avevano anche uno spiccato significato esoterico, ed hanno sempre cercato di riprodurli, arrivando ad utilizzarli anche come elementi urbanistici. Curioso pensare che mentre i Faraoni facevano costruire gli obelischi in onore del dio Ra, il Dio del Sole, per stabilire con lui un contatto diretto, nel ‘500 sarà invece un Papa, Sisto V, a far alzare di nuovo gli obelischi di età imperiale, seppelliti o distrutti durante il Medioevo, come segnale di potenza della Chiesa e del suo papato, ma anche come cardini del riordino urbanistico della città che aveva intrapreso.

Gli obelischi egiziani

L’Obelisco Vaticano è sicuramente uno dei più celebri di Roma: alto 25.5 metri, proviene da Eliopoli in Egitto ed ha la particolarità di non essere mai andato distrutto. Venne portato a Roma da Caligola nel 40 e collocato sulla spina del Circo di Nerone, finchè l’architetto Domenico Fontana (incaricato da Papa Sisto V di risistemare tutti gli obelischi di Roma) lo pose al centro di piazza san Pietro il 10 settembre del 1586.

L’Obelisco Lateranense si trova a Piazza San Giovanni in Laterano e proviene dal tempio di Ammone a Tebe in Egitto, da dove fu trasferito a Roma per volere dell’imperatore Costanzo II nel 357. All’epoca venne posizionato accanto all’Obelisco Vaticano, sulla spina del Circo Massimo: in seguito venne ritrovato in tre pezzi ed eretto di nuovo nel 1588, per volere di Papa Sisto, in corrispondenza della Loggia delle benedizioni lateranense e in continuità prospettica con la basilica di Santa Maria Maggiore.

L’Obelisco di Montecitorio è alto 30 metri e fu costruito all’epoca del faraone Psammetico II: da Eliopoli, dove si trovava, venne portato a Roma nel 10 da Augusto e collocato come gnomone dell’Orologio di Augusto in Campo Marzio. Dopo un incendio, venne fatto spostare e rialzare da papa Pio VI nel 1792.

L’Obelisco del Pantheon venne portato a Roma da Domiziano, che lo collocò come decorazione dell’Iseo Campense con l’obelisco della Minerva e quello di Dogali. Nel 1711 venne spostato, per volere di Papa Clemente XI, davanti al Pantheon, sulla fontana di Giacomo Della Porta.

L'Obelisco del Pantheon, uno dei 13 obelischi antichi di Roma

Fonte: 123RF

L’Obelisco del Pantheon, portato a Roma da Domiziano e collocato nel 1711 davanti al Pantheon

L’Obelisco Flaminio è un altro degli obelischi più conosciuti e fotografati della Città Eterna: si trova a Piazza del Popolo, è alto quasi 26 metri e venne eretto in Egitto da Ramesse II. Fu Augusto a portarlo a Roma nel 10 e a collocarlo sulla spina del Circo Massimo, fu poi Domenico Fontana, nel 1589, a erigerlo di nuovo e a collocarlo nella posizione attuale.

Molto caratteristico l’Obelisco della Minerva, che in origine era ubicato nella città egiziana di Eliopoli e venne poi trasportato a Roma sotto Domiziano e posizionato presso il Tempio di Iside al Campo Marzio (Iseo Campense). La sua sistemazione a piazza della Minerva (di fronte alla basilica di Santa Maria sopra Minerva) fu progettata da Gian Lorenzo Bernini, che lo allestì sul dorso di un elefante di marmo. Il Papa all’epoca era Alessandro VII e il simbolo dell’elefante doveva essere un omaggio a lui.

Particolare anche la storia dell’Obelisco di Villa Celimontana, che attualmente si trova nella Villa sul Celio, fra le antichità della Famiglia Mattei: si tratta di un obelisco frammentario, quindi la parte originale è solo la metà superiore, risalente all’epoca del faraone Ramsete II. L’obelisco venne rialzato nei giardini di Villa Celimontana nel 1820, dopo essere stato prelavato dalle rovine del Tempio di Iside in Campo Marzio; nel Medioevo era stato invece collocato sul Campidoglio, vicino all’andito laterale della basilica di Santa Maria in Aracoeli. Nel 1582 fu donato a Ciriaco Mattei, che lo fece trasportare alla Villa dei Mattei sul Monte Celio.

L’Obelisco del Pincio ha un’origine romantica e tragica: venne realizzato durante il II secolo dall’imperatore romano Adriano in onore di Antinoo, il ragazzo greco da lui amato. Innalzato in Egitto, l’imperatore lo fece poi trasferire a Roma, davanti al monumento eretto in onore dell’adolescente a lui caro. Non si conosce la primaria ubicazione, ma si sa che poi l’obelisco nel III secolo venne collocato nella residenza estiva dell’imperatore Eliogabalo, sulla spina del circo Variano. Venne poi rinvenuto nel 1589, rotto in tre pezzi, appena fuori dell’attuale Porta Maggiore. Nel 1633 l’obelisco, sempre in tre pezzi, venne spostato dai Barberini nei giardini del loro Palazzo e in seguito donato a papa Clemente XIV che lo fece trasferire nel Cortile della Pigna in Vaticano. E’ stato innalzato di nuovo nel 1822, quando per volere di Papa Pio VII l’obelisco venne posto su basamento da Giuseppe Valadier nei Giardini del Pincio, da dove prende il nome attuale.

L’Obelisco di Dogali arrivò a Roma da Eliopoli, insieme all’Obelisco del Pantheon e quello della Minerva: rinvenuto nel 1883, venne rialzato nel 1887 dall’architetto Francesco Azzurri davanti alla Stazione Termini, per commemorare i caduti della battaglia di Dogali in Eritrea. Nel 1925 venne spostato nei giardini presso le Terme di Diocleziano.

Gli obelischi Romani

Gli obelischi romani, realizzati quindi a Roma sul modello di quelli egiziani, sono l’Obelisco Esquilino, l’Obelisco Agonale, l’Obelisco del Quirinale e l’Obelisco Sallustiano. Sono stati edificati fra il I e il II secolo, a imitazione degli omologhi egizi e spesso vengono infatti definiti “egittizanti”: l’epoca in cui vennero realizzati, usando marmi egizi e copiando le iscrizioni di quelli originali, aveva visto proprio il dilagare dell’Egittomania e della simbologia solare legata agli imperatori.

Tutti e quattro adornano piazze storiche della Città Eterna: l’Obelisco Esquilino, gemello dell’obelisco egizio Lateranense, si trova a Santa Maria Maggiore; l’Agonale, in granito rosso, rialzato per volere di Papa Innocenzo X nel 1651, si trova a Piazza Navona; l’obelisco Quirinale è posizionato davanti all’omonimo Palazzo, sede della Presidenza della Repubblica, accanto alla fontana dei Dioscuri ed è il gemello dell’obelisco di Montecitorio; l’obelisco Sallustiano è stato posto nel 1789 su Trinità dei Monti, da dove domina il centro storico di Roma in una delle sue piazze più rappresentative, Piazza di Spagna.

Gli obelischi moderni

Oltre ai celebri obelischi antichi egizi e romani, a Roma ci sono diversi altri obelischi, eretti in età moderna, tra il XIX e il XX secolo. Più che obelischi sono monumenti commemorativi o decorativi, che riprendono la forma dell’obelisco per il loro valore simbolico. Tra questi annoveriamo l’Obelisco di Villa Medici, che si trova nel giardino dell’omonima villa sul Pincio ed è una copia dell’originale che si trova invece a Firenze, nel giardino di Boboli; gli Obelischi di Villa Torlonia, che  furono realizzati nel 1842 in granito di Baveno, appositamente per la villa della famiglia sulla via Nomentana; l’Obelisco del Foro Italico, voluto dall’allora Ministro delle Corporazioni del Regno d’Italia Renato Ricci, eretto nel 1932 davanti al complesso sportivo del Foro Italico e che originariamente prese il nome da Benito Mussolini, a cui l’obelisco era dedicato; l’Obelisco di Marconi, eretto nel 1959 nel quartiere dell’EUR per celebrare i Giochi Olimpici del 1960 ed infine l’Obelisco Novecento, del grande Arnaldo Pomodoro, che è stato inaugurato nel 2004 in piazzale Pier Luigi Nervi, nel quartiere Europa.

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I cerchi delle fate del Namib: enigmi disegnati dalla natura in un deserto che sussurra leggende al cielo africano

Nel cuore selvaggio della Namibia, dove il vento soffia tra le caratteristiche dune di sabbia rossa e il tempo sembra sospeso, si cela uno dei più affascinanti misteri naturali del pianeta: i cerchi delle fate. Dall’alto, sembrano macchie tonde perfettamente disegnate, come se qualcuno avesse punteggiato il deserto con un pennello gigante.

Sul terreno, invece, si rivelano come dischi di sabbia completamente spogli di vegetazione, circondati da una cornice di erba alta e verdissima, che accentua ancor di più il contrasto.

Distribuiti lungo una fascia lunga oltre 2.000 chilometri tra Angola, Namibia e parte del Sudafrica, questi cerchi variano da pochi metri fino a oltre dieci di diametro, con una vita media che oscilla tra i 20 e i 75 anni. Un fenomeno tanto regolare quanto inspiegabile, che ha dato vita a miti ancestrali e teorie scientifiche ancora in evoluzione.

Tra leggende himba e teorie scientifiche, l’enigma del Namib

Per gli Himba, popolazione nomade della Namibia, i cerchi delle fate sono sacri: opera del dio Mukuru, rappresentano le sue orme lasciate durante le sue visite sulla Terra. Secondo altri racconti, sono la conseguenza del respiro infuocato di un drago che vive sottoterra. E, in un paesaggio tanto estremo quanto magico, l’idea che qualcosa di soprannaturale sia all’opera non sembra poi così assurda.

Cerchi delle Fate, Namib, Namibia

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Dettaglio dei Cerchi delle Fate, nel cuore del Namib

Ma, d’altronde, la scienza non si accontenta delle leggende. Da decenni, biologi ed ecologi cercano di svelare il mistero. Una delle teorie più accreditate è quella del biologo tedesco Norbert Juergens, che individua la causa nelle termiti del deserto Psammotermes allocerus. Questi insetti vivrebbero nei cerchi, nutrendosi delle radici e impedendo alle piante di crescere, creando così una riserva di umidità sotterranea che favorisce la vita ai margini del cerchio. Tuttavia, esperimenti condotti da altri ricercatori, come Walter Tschinkel, non hanno confermato con certezza questa teoria: i cerchi naturali rimangono stabili per decenni, mentre quelli artificiali tendono a scomparire.

C’è anche chi ipotizza che i cerchi siano una forma di auto-organizzazione delle piante, un sistema naturale per gestire l’acqua in un ambiente ostile. Ogni ciuffo di erba competerebbe con gli altri per l’acqua disponibile, creando una distribuzione geometrica ottimale: quando la competizione si intensifica, nasce un “vuoto centrale” privo di vegetazione.

La verità, forse, sta in un mix di tutte queste ipotesi. Ma forse, ancora più importante della risposta scientifica, è l’effetto che questi cerchi hanno su chi li osserva. Davanti a questo spettacolo apparentemente semplice ma profondamente misterioso, la sensazione è di trovarsi al cospetto di qualcosa che sfugge alla logica e appartiene al linguaggio segreto della natura.

Come arrivare ai cerchi delle fate del Namib

I cerchi delle fate si trovano all’interno del Parco Nazionale di Namib-Naukluft, nella parte occidentale della Namibia. Le zone più accessibili dove è possibile osservarli da vicino si concentrano soprattutto nei pressi di Sossusvlei e nella Marienfluss Valley, aree spettacolari già di per sé per il paesaggio desertico e surreale che le caratterizza.

Chi parte da Windhoek, la capitale della Namibia, può raggiungere Sossusvlei in automobile in circa cinque o sei ore. È fortemente consigliato l’uso di un veicolo 4×4, poiché molte delle strade che conducono al parco sono sterrate e richiedono una buona maneggevolezza del mezzo, soprattutto durante la stagione secca.

Il periodo ideale per pianificare una visita va da maggio a ottobre, quando il clima è più secco e le temperature sono generalmente miti. Durante questi mesi, il cielo terso e la luce limpida offrono anche le condizioni migliori per scattare fotografie suggestive, soprattutto all’alba e al tramonto, quando le lunghe ombre disegnano i contorni dei cerchi con una nitidezza quasi magica.

Chi desidera ammirare il fenomeno dall’alto può affidarsi a uno dei numerosi tour in mongolfiera o in aereo leggero che sorvolano la zona: un’esperienza spettacolare, che consente di cogliere appieno la geometria e la vastità dei cerchi.

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La città di Kom el-Nugus riemerge dalle sabbie del tempo e riscrive la mappa dell’antico Egitto

Una scoperta significativa ha riscritto la storia: nella zona nord-ovest d’Egitto un’équipe francese ha riportato alla luce qualcosa che sembrava ormai sepolto nella polvere del tempo: i resti di un’antica città egizia, risalente a circa 3.400 anni fa. Siamo a a Kom el-Nugus, a circa 40 chilometri da Alessandria. Sotto strati di sabbia (e di storia) è riemersa una città che affonda le sue radici nel Nuovo Regno.

La nuova mappa dell’Egitto dopo la scoperta

La scoperta della città di Kom el-Nugus, rivenuta a circa 40 chilometri da Alessandria, è stata guidata dal team di archeologi francesi con a capo lo studioso Sylvain Dhennin del CNRS e dell’Università di Lione. Gli esperti hanno raccontato come le strutture in mattoni crudi appartenessero alla XVIII dinastia, la stessa in cui hanno regnato Akhenaton, Nefertiti e il giovane Tutankhamon. Il ritrovamento è di grande rilevanza; grazie a ciò è possibile ridisegnare la mappa dell’Egitto notando come le zone occidentali del Delta non fossero abbandonate a se stesse fino all’arrivo dei greci, ma al contrario fossero già un centro economico piuttosto strategico.

Kom el-Nugus emerge dagli scavi archeologici

Fonte: Cambridge University

Lo scavo archeologico fa emergere la città di Kom el-Nugus

I reperti legati ai faraoni

Tra i reperti più intriganti spicca una serie di frammenti di anfore con sigilli che riportano il nome di Merytaton, figlia primogenita del faraone eretico Akhenaton e di Nefertiti; i resti suggeriscono che Kom el-Nugus potrebbe essere stata sede di una produzione vinicola di prestigio, forse gestita da una tenuta reale a nome della principessa. La presenza del suo nome come “brand” testimonia un sorprendente antenato del moderno marketing dinastico. Non meno importante è l’individuazione dei resti di un tempio dedicato a Ramesses II, il grande faraone spesso identificato nella tradizione con l’Esodo biblico. Blocchi decorati con immagini del dio solare Ra-Horakhty e iscrizioni con i cartigli di Seti II, suo discendente, rafforzano l’ipotesi che questo centro avesse una forte connotazione religiosa e politica. I ritrovamenti suggeriscono poi un impegno espansionistico dell’Egitto verso il territorio, specialmente osservando quelle che erano le zone con vigne e dedicate alla produzione di vino.

Gli ultimi ritrovamenti

Il ritrovamento di Kom el-Nugus è la testimonianza dell’impegno costante di ricerca portata avanti dagli archeologi egizi; solo poche settimane fa è stata scoperta la tomba del faraone Thutmose II presso la Valle dei Re. Una squadra di specialisti franco-svizzeri ha invece riportato alla luce la tomba del medico sacerdote Tetinebefou, vissuto durante il regno di Pepi II circa 4.000 anni fa.

La scoperta di Kom el-Nugus riapre interrogativi mai sopiti: quanto ancora resta da scoprire lungo le rotte meno battute della storia egizia? Quali altri segreti si celano sotto la sabbia del Delta? Ogni frammento, ogni iscrizione, ogni muro che riaffiora dal passato rappresenta non solo una finestra su un’epoca remota, ma anche una lente con cui leggere il presente.  Con queste scoperte, l’Egitto dimostra ancora una volta di essere un libro aperto che, pagina dopo pagina, continua a stupire il mondo. E Kom el-Nugus è un capitolo che promette di far riscrivere interi paragrafi di quella storia millenaria che ci affascina da secoli.

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Sulle orme di Papa Francesco: i viaggi più importanti che hanno sorpreso il mondo

I viaggi apostolici, per Papa Francesco, morto il 21 aprile 2025 all’età di 88 anni, sono sempre stati non solo motivo di evangelizzazione, ma anche un’occasione per entrare in dialogo con la storia e la cultura dei popoli. Durante il suo papato ha compiuto 47 viaggi in 66 diverse nazioni e 40 visite pastorali in 49 differenti città o frazioni d’Italia.

Il continente dove ha compiuto più viaggi è stato l’Europa, visitata 20 volte. È stato poi 14 volte in Asia, 7 volte in America Latina e Caraibi, 4 in Africa, 2 in Nord America e 1 volta in Oceania. In linea con il suo pensiero, sempre rivolto ai poveri, agli emarginati e agli svantaggiati, durante i suoi viaggi Papa Francesco si è dedicato a quei luoghi che, per un motivo o per un altro, hanno bisogno dell’attenzione mediatica. Basti pensare al viaggio che fece nel 2016 a Lesbo, in Grecia, per incontrare profughi e rifugiati ospitati nell’isola.

Questi sono i viaggi di Papa Francesco inseriti in ordine cronologico che, per la loro importanza storica e religiosa, sono rimasti impressi nella memoria collettiva.

Lampedusa, Italia

La prima visita del suo pontificato fu a Lampedusa l’8 luglio del 2013. Papa Francesco raggiunse l’isola perché toccato dai naufragi dei migranti nel canale di Sicilia, desideroso di incontrare alcuni profughi e celebrare la Messa in località Salina. Qui sono state scattate immagini che fecero il giro del mondo: dal lancio di una ghirlanda di fiori bianchi e gialli in mare per ricordare quanti hanno perso la vita nelle traversate all’incontro con i profughi a Punta Favarolo, dove il Papa venne accolto da canti africani. Infine, ha celebrato la Messa al campo sportivo Arena, su un altare allestito utilizzando una piccola barca.

Viaggio di Papa Francesco a Lampedusa

Fonte: IPA Agency

Il viaggio di Papa Francesco a Lampedusa

Rio de Janeiro, Brasile

Il primo vero viaggio apostolico fu in Brasile nel 2013, in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro. Fu accolto ufficialmente con una cerimonia al Palazzo Guanabara, dove incontrò la presidente brasiliana Dilma Rousseff, mentre le celebrazioni raggiunsero il culmine con una messa sulla spiaggia di Copacabana, dove si radunarono fino a 3,5 milioni di pellegrini. Durante la veglia, il Papa esortò i giovani a vivere la fede in modo pieno e autentico, rifiutando di essere “cristiani part-time”.

Seppur viaggiò più volte in Sud America, non tornò mai a visitare i luoghi della sua infanzia in Argentina.

Giordania, Palestina e Gerusalemme

Dal 24 al 26 maggio 2014, Papa Francesco ha compiuto un pellegrinaggio in Terra Santa, dove ha toccato i principali luoghi religiosi in Giordania, a Betlemme e a Gerusalemme. Ha celebrato la Messa in Piazza della Mangiatoia a Betlemme, al Getsemani e al Cenacolo, pronunciando durante il suo viaggio parole di pace in occasione della visita allo Yad Vashem (il memoriale della Shoah) e durante la preghiera al Muro occidentale. Fece sosta anche al muro che divide Betlemme da Gerusalemme e al memoriale degli israeliani vittime di terrorismo.

Cuba e Stati Uniti d’America

Storico fu il suo viaggio a Cuba, dove prima di lui andarono Giovanni Paolo II (21-25 gennaio 1998) e Benedetto XVI (26-28 marzo (2012). Papa Francesco arrivò sull’isola nel settembre del 2015, dopo la ripresa delle relazioni diplomatiche con Washington. Papa Francesco ha fatto tappa prima a Cuba, nel dettaglio all’Avana, a Holguin e Santiago, e poi negli Stati Uniti d’America, in particolare a Washington, New York e Filadelfia.

Questo è stato, fino a quel momento, il viaggio più lungo del suo pontificato, oltre che il più denso e complesso, con ben ventisei discorsi in programma: otto a Cuba e 18 negli USA, di cui solo quattro in inglese, il resto in spagnolo.

Lesbo, Grecia

Particolarmente impresso nella memoria collettiva è il viaggio di Papa Francesco sull’isola di Lesbo, in Grecia. Avvenuto il 16 aprile 2016 per fare visita ai rifugiati e migranti del campo di Morìa, protagonisti di quella che definì la “catastrofe umanitaria più grande dopo la Seconda Guerra Mondiale”. Qui, il Papa, il patriarca Bartolomeo e l’arcivescovo Ieronymus si incamminarono tra le tende del campo profughi per richiamare l’attenzione del mondo su questa crisi umanitaria incitando l’Europa a mostrare misericordia.

Thailandia e Giappone

Nel novembre del 2019, il Papa è arrivato in Thailandia in occasione dell’anniversario del Vicariato Apostolico del Siam, eretto nel 1669, che ha segnato l’inizio della presenza della Chiesa nel Paese. Il viaggio non si è concentrato solo sui cattolici, che in Thailandia rappresentano poco più dello 0,5% dei 65 milioni di abitanti del Paese, ma anche sull’incontro con esponenti del buddismo.

Successivamente è volato in Giappone, dove si è recato a Nagasaki per rivolgere un messaggio contro l’uso delle armi nucleari presso l’Atomic Bomb Hypocenter Park. A Hiroshima, invece, ha partecipato a un incontro al Memoriale della Pace durante il quale è stata anche ascoltata la testimonianza di una sopravvissuta alla bomba atomica.

Papa Francesco incontra le vittime del triplice disastro alla Bellesalle Hanzomon

Fonte: IPA Agency

Papa Francesco incontra le vittime del triplice disastro alla Bellesalle Hanzomon in Giappone

Baghdad e Mosul, Iraq

Papa Francesco è stato il primo Papa nella storia a visitare l’Iraq. Il viaggio si è svolto dal 5 all’8 marzo 2021, prima a Baghdad, dove ha celebrato una messa in rito caldeo, e poi nel Kurdistan iracheno. Ha fatto visita anche a Mosul, dove ha recitato una preghiera di suffragio per le vittime della guerra, e alla comunità cristiana di Qaraqosh.

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Una porta per l’eternità: nuova scoperta nella necropoli di Saqqara

Una nuova, straordinaria scoperta archeologica arriva ad ampliare ancora di più ciò che sappiamo sull’Antico Regno egiziano.

Nella necropoli di Saqqara, uno dei siti funerari più emblematici dell’antichità, è stata portata alla luce la tomba del principe Woser-ib-R, figlio del faraone Userkaf, fondatore della V dinastia.

L’annuncio è stato dato dal Ministero del Turismo e delle Antichità egiziano, in collaborazione con il Consiglio Supremo delle Antichità e la Fondazione Zahi Hawass, e rappresenta un tassello fondamentale per la ricostruzione delle prime fasi di una dinastia fondamentale.

Un ingresso verso l’eternità: la porta fittizia in granito rosa

Al centro del ritrovamento si impone una monumentale porta fittizia in granito rosa, alta 4,5 metri, pensata per connettere in maniera simbolica il mondo dei vivi e quello dei morti: questo elemento architettonico, tipico dell’iconografia funeraria egizia, era ritenuto il varco attraverso cui il defunto poteva ricevere offerte e partecipare alla vita dell’aldilà.

Le iscrizioni incise con estrema precisione ne attestano l’importanza: Woser-ib-R viene descritto con titoli che evocano potere e prestigio, come “visir”, “scriba reale” e “giudice”, ma anche con ruoli religiosi di rilievo come “sacerdote cantore”. La qualità artistica della porta riflette il livello di raffinatezza raggiunto dall’artigianato durante la V dinastia.

Statue misteriose e legami politici con il passato

La scoperta si arricchisce poi con il rinvenimento di un gruppo statuario alquanto enigmatico. Al suo interno, gli archeologi hanno identificato rappresentazioni del re Djoser, vissuto circa due secoli prima di Woser-ib-R e noto per aver commissionato la celebre piramide a gradoni di Saqqara. Accanto a lui, le statue raffigurano la moglie e le dieci figlie, un insieme che si riteneva perduto.

Gli studiosi ipotizzano che le statue siano state spostate dalla loro originaria collocazione presso la piramide di Djoser e poi inserite nella tomba di Woser-ib-R, forse come gesto politico volto a legittimare una continuità simbolica con l’illustre predecessore. È plausibile che il principe, o il suo entourage, abbia voluto rafforzare un legame dinastico immaginario con il passato glorioso per affermare una nuova legittimità.

La tomba custodisce anche una tavola per le offerte in granito rosso, del diametro di quasi un metro, decorata con iscrizioni rituali. Oltre a essa, ha rivisto la luce una statua in granito nero raffigurante un uomo in posizione eretta, alta 1,17 metri, i cui titoli sono incisi lungo la base. Ciò che sorprende è la datazione di tale manufatto, attribuito alla XXVI dinastia: un indizio concreto che la tomba fu riutilizzata secoli dopo la sua realizzazione, a conferma del valore che questi luoghi sacri continuarono ad avere nella memoria collettiva egiziana.

L’imponente facciata e le statue delle mogli

Sulla facciata orientale del sepolcro è stato identificato un secondo ingresso, anch’esso in granito rosa, decorato con geroglifici che menzionano non solo il nome di Woser-ib-R, ma anche il cartiglio del re Neferirkara.

Proprio in questa zona sono emerse tredici statue in granito rosa, con figure sedute su troni. Alcune raffigurano con ogni probabilità le consorti del principe, altre sono acefale e accompagnate da un’imponente statua alta 1,35 metri, rinvenuta capovolta.

L’impressione generale è quella di una sepoltura concepita come spazio dinastico e cerimoniale, dedicato sì al defunto ma anche al suo entourage familiare.

Userkaf: un faraone tra passato e futuro

A rendere ancora più significativa la scoperta è la figura del padre di Woser-ib-R, Userkaf, primo re della V dinastia.

Il suo regno, seppur breve, fu determinante per l’avvio di una nuova era politico-religiosa. A differenza dei predecessori, Userkaf non proveniva da una linea dinastica diretta: la sua ascesa al trono sembra essere il risultato di un compromesso tra sangue reale (probabilmente per via materna) e potere politico acquisito. Una figura ibrida, dunque, ponte tra la grandezza monumentale della IV dinastia e le riforme religiose della V.

Uno degli elementi più distintivi del regno di Userkaf fu l’introduzione del culto solare come asse portante dell’ideologia regale. Il tempio solare di Abu Ghurab, a lui attribuito, rappresenta un punto di svolta: per la prima volta il dio Ra viene ufficialmente consacrato come padre del faraone, in un’ideologia che accosta il potere monarchico alla sfera divina.

Si tratta di una vera e propria rivoluzione teologica, che influenzerà tutta la V dinastia.

Una tomba tra memoria, potere e spiritualità

La tomba di Woser-ib-R, nel suo insieme, testimonia non solo il rango di un principe figlio di un faraone riformatore, ma anche l’intreccio tra potere politico e memoria storica.

La presenza di statue di epoche differenti, la monumentalità delle iscrizioni, l’esplicito riferimento a faraoni del passato e la successiva riutilizzazione dello spazio tombale, tutto suggerisce una narrazione complessa e stratificata. È il racconto, inciso nella pietra, di un’Egitto che guarda al futuro senza dimenticare la propria, antichissima eredità.

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Tsingy de Bemaraha: la foresta di pietra dove la natura sfida la gravità

Riconosciuta Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nel 1990, la riserva naturale Tsingy de Bemaraha vanta un paesaggio unico al mondo perché presenta una vasta e rara collezione di speroni calcarei affilati come rasoi. Chiamata anche “foresta di pietra”, è famosa proprio grazie a queste particolari formazioni che, gigantesche e torreggianti, immergono il visitatore in uno scenario surreale e drammatico.

Dove si trova il parco di Tsingy de Bemaraha

Il parco di Tsingy de Bemaraha è tanto incredibile quanto difficile da raggiungere. D’altronde, i luoghi più belli al mondo bisogna saperseli guadagnare. La riserva è situata nelle remote terre del distretto di Antsalova in Madagascar, di cui fanno parte anche le Foreste Secche di Andrefana.

Questo affascinante territorio sembra realmente appartenere a un mondo diverso e, già dal significato del nome, ne percepiamo il fascino. Tsingy de Bemaraha, infatti, significa “il luogo dove non si può camminare a piedi nudi”. Basta guardarli, quei pinnacoli calcarei affilati come rasoi, che raggiungono altezze fino a 70 metri, per pensare a tutto tranne che a camminarci sopra senza scarpe!

Il parco può essere raggiunto con una combinazione di voli, viaggi in auto e, possibilmente, attraversamenti fluviali: arrivarci in sicurezza richiede un’attenta pianificazione e uno spiccato spirito d’avventura.

Tsingy de Bemaraha

Fonte: iStock

Le formazioni rocciose nella riserva Tsingy de Bemaraha

Uno scrigno di biodiversità

Nonostante il suo aspetto inospitale, Tsingy de Bemaraha non rappresenta solo una meraviglia geologica, ma è un vero e proprio scrigno di biodiversità. Le intricate formazioni calcaree hanno creato microclimi ed ecosistemi diversi, favorendo l’evoluzione di flora e fauna endemiche che non si trovano in nessun altro luogo sulla Terra.

Le torri affilate come coltelli, i canyon a fessura e le grotte umide che compongono questo paesaggio tengono lontani gli umani e offrono rifugio a diverse specie di animali e piante. Possiamo considerarlo come un paradiso per i ricercatori e gli scienziati che qui, negli ultimi anni, hanno avuto la fortuna di scoprire specie prima sconosciute di lemuri, pipistrelli, piante da caffè e rane, per fare qualche esempio.

Per visitare la riserva si consiglia di lasciarsi accompagnare dalle guide del parco che, procedendo lungo i sentieri dedicati, non solo vi aiuteranno a non perdervi nel labirinto di guglie rocciose, ma vi permetteranno di esplorare anche canyon e grotte, come quella di Anjohibe.

Le incredibili formazioni carsiche

Le formazioni rocciose presenti nel parco di Tsingy de Bemaraha sono di tipo carsico, formatosi dal calcare poroso dissolto, eroso e modellato nel corso del tempo dall’acqua. I processi che hanno portato alla creazione di questo incredibile paesaggio sono estremamente complessi e rari tanto che ne esistono pochissime simili al di fuori del Madagascar.

I ricercatori ritengono che l’acqua sotterranea si sia infiltrata negli estesi strati calcarei e abbia iniziato a dissolverli lungo giunture e faglie, creando grotte e tunnel. Le cavità si sono poi ampliate e, alla fine, i loro soffitti sono crollati lungo le stesse giunture, creando canyon rettilinei profondi fino a 120 metri e delimitati da guglie di roccia verticali come le torri di una cattedrale gotica.

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Sidi Bou Said, un angolo blu e bianco sospeso nel Mediterraneo

Affacciato come un gioiello sul Golfo di Tunisi, Sidi Bou Said custodisce da secoli il segreto di una bellezza senza tempo. Fino a poco tempo fa, era un tesoro nascosto della Tunisia, un rifugio intimo che incantava chi aveva la fortuna di scoprirlo.

Le tradizionali casette bianche, le porte blu cobalto, i balconi in ferro battuto e i vicoli acciottolati sembrano dipinti su di una cartolina antica, mentre i giardini traboccano di bouganville e fiori dai colori accesi. Chi passeggia tra le stradine prova una “dolce vertigine”, quella di essere sospeso tra l’Africa e il Mediterraneo, in un’atmosfera che, a detta di molti, ricorda la celebre Santorini.

A soli 19 chilometri dal centro di Tunisi, questo villaggio dall’anima poetica affonda le sue radici nel 1207, quando fu fondato dal maestro sufi Abu Said el Baji.

Ma fu nel 1920 che il destino di Sidi Bou Said cambiò per sempre: il pittore francese Rodolphe d’Erlanger scelse di dipingere il suo palazzo con i colori del cielo e della purezza, il blu e il bianco, e così trasformò l’intero villaggio in un rifugio di arte e bellezza. Da allora, artisti, musicisti e scrittori hanno trovato qui la loro ispirazione, lasciando che il tempo scivolasse via lento, come un sogno d’estate.

Perdetevi nel sogno: cosa vedere a Sidi Bou Said

Non c’è modo migliore di scoprire Sidi Bou Said che camminare senza fretta, lasciandosi guidare solo dal richiamo dei colori e dai profumi che invadono l’aria. Ogni svolta, ogni scorcio regala emozioni: l’architettura tradizionale si svela nei minimi dettagli, nei vicoli nascosti dove le porte azzurre e le inferriate in ferro battuto disegnano arabeschi di luce e ombra.

Dal 1979, il villaggio incantato è protetto dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità, e non è difficile capire il perché. La strada principale, incorniciata da case nivee e portoni blu intenso, è un tuffo in un altro mondo, dove lo sguardo si perde tra le mashrabiyya, piccole gabbie di legno verniciate di blu che circondano i balconi e permettono agli abitanti di osservare la vita scorrere senza essere visti. Un gioco di intimità e mistero che amplifica il fascino discreto di Sidi Bou Said.

La leggenda vuole che il barone d’Erlanger, discendente di una nobile famiglia di banchieri tedeschi, si sia innamorato perdutamente di Sidi Bou Said: tanto forte fu il richiamo che rinunciò a una brillante carriera per vivere tra quelle case bianche e a quel cielo blu, e lasciò che l’arte e la bellezza governassero la sua esistenza.

Il tempo qui sembra scorrere più lento, soprattutto seduti nei caffè storici che hanno fatto da rifugio a generazioni di artisti e pensatori. Il Café des Délices, adagiato sulla scogliera e affacciato sul mare infinito, regala panorami capaci di togliere il fiato. Al Café des Nattes, invece, si respira un’aria bohémienne d’altri tempi, tra tappeti, arcate e chiacchiere lente.

Per chi ama perdersi tra le meraviglie dell’artigianato locale, i negozietti sono un invito irresistibile: tessuti ricamati, gioielli lavorati a mano, tappeti odorosi di spezie, ceramiche decorate e profumi d’oriente animano le botteghe che si rincorrono lungo i vicoli.

Chi desidera immergersi nella storia locale non può perdere il Museo Dar el-Annabi, che apre le porte di una tradizionale casa tunisina e offre uno spaccato autentico della vita quotidiana di un tempo. Le gallerie d’arte come Ghaya e A Gorgi, invece, portano avanti la vivace tradizione creativa della città.

A coronare l’esperienza, il Palazzo Dar Nejma Ezzahra, oggi sede del Centro di Musica Araba e Mediterranea, racconta tramite la sua architettura raffinata e le sale decorate una storia di amore per la cultura e la musica. Infine, le maestose rovine di Cartagine si trovano a pochi passi, pronte a evocare epoche di gloria e mito.

Un incanto di sabbia e onde: il mare di Sidi Bou Said

Sidi Bou Saidcon il suo mare
La bellezza di Sidi Bou Saidcon il suo mare

Non solo stradine incantate e case bianche: Sidi Bou Said svela il suo lato più selvaggio e romantico lungo le candide spiagge: la sabbia fine si stende morbida fino a incontrare il blu profondo del mare, mentre le colline verdi incorniciano il paesaggio come una carezza.

Nei mesi più caldi, un bagno rinfrescante tra le onde cristalline è un piacere irrinunciabile, ma anche nelle stagioni più fresche una passeggiata lungo la riva evoca emozioni intense, tra la brezza leggera e il canto lontano dei gabbiani.

Le spiagge attrezzate sono poche e intime, perfette per chi cerca quiete e bellezza autentica. Per i più avventurosi, non manca la possibilità di noleggiare moto d’acqua.

E se il desiderio del mare si fa ancora più irresistibile, il piccolo porticciolo di Sidi Bou Said aspetta con le barche ormeggiate: noleggiarne una e salpare verso l’orizzonte è un invito a vivere il Golfo di Tunisi da una prospettiva unica, con il vento nei capelli e il sole che accarezza la pelle.