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Parco d’affaccio di Ostia Antica: il nuovo polmone verde tra natura e archeologia sul Tevere

Nel cuore di Ostia Antica nasce un nuovo spazio dedicato alla natura, alla storia e al benessere. Il Parco di affaccio sul Tevere di Ostia Antica, recentemente inaugurato, rappresenta una tappa molto importante nel progetto di valorizzazione delle sponde del fiume a Roma. Un luogo dove respirare a contatto con la natura, passeggiare lentamente, godersi un giro in bicicletta o semplicemente apprezzare il panorama a due passi dagli scavi archeologici. In questo articolo vengono riportate tutte le caratteristiche di questo nuovo parco urbano.

Un parco sul fiume: natura e relax a pochi passi dal centro storico

Il nuovo Parco d’affaccio di Ostia Antica si estende su un’area di circa 1,5 ettari, situata a pochi metri dal celebre sito archeologico e raggiungibile facilmente anche da via Gherardo. Questo intervento ha trasformato una zona precedentemente abbandonata in un parco naturalistico moderno, dove è possibile immergersi nella flora fluviale tipica del Tevere, tra felci, canneti e boschi igrofili.
Il cuore del parco è un percorso ciclo-pedonale ad anello lungo oltre 700 metri, ideale per rilassanti passeggiate, jogging o giri in bicicletta in totale sicurezza, all’ombra dei pini e con vista sugli ormeggi delle piccole imbarcazioni.

Educazione ambientale e benessere psicofisico

Il parco non è solo un’oasi verde, ma anche uno spazio per la formazione e l’educazione ambientale. Come sottolineato dall’assessora all’Ambiente Sabrina Alfonsi, l’obiettivo è quello di rendere fruibili le sponde del fiume, offrendo ai cittadini di Roma e non solo un luogo dove imparare a conoscere l’ambiente fluviale e migliorare il proprio benessere psicofisico grazie al contatto diretto con la natura.

Un collegamento fluviale tra Roma e Ostia

Uno degli elementi più innovativi del Parco d’affaccio di Ostia Antica è la presenza di un molo riqualificato, che ospita ora un battello turistico in grado di collegare direttamente il parco con la spiaggia urbana Tiberis, situata nella zona sud di Roma. Un’esperienza unica da provare assolutamente che permette di navigare il Tevere, coniugando natura, turismo e mobilità sostenibile.

Un progetto più ampio per riscoprire il Tevere

Il parco di Ostia è il terzo degli affacci sul Tevere inaugurati dal Comune di Roma, dopo quelli dell’Acqua Acetosa e del lungotevere delle Navi. Altri due, in fase di apertura entro l’estate, sono previsti a Ponte Milvio e al Foro Italico, per un totale di cinque nuovi parchi lineari realizzati grazie a un investimento complessivo di 7,3 milioni di euro di fondi giubilari.
Come ha dichiarato il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, questi interventi segnano l’inizio di una nuova epoca nel rapporto della città con il suo fiume, offrendo ai romani e ai turisti tanti itinerari inediti tra storia, verde e bellezza paesaggistica.

Il Parco di affaccio di Ostia Antica è molto più di un semplice spazio verde: è un luogo in cui la natura incontra la storia, dove cittadini e visitatori possono riscoprire il Tevere da una prospettiva nuova, sostenibile e inclusiva. Un invito a vivere il territorio in modo più consapevole e rispettoso, tra archeologia, biodiversità e percorsi rigeneranti. Questa è una valida alternativa green per coloro che vivono in città ma amano stare anche in mezzo alla natura.

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I tesori perduti dell’antica Ninive: l’incredibile scoperta fatta dagli archeologi

La regione attorno a Ninive, l’odierna Mosul, antica capitale dell’impero assiro, rappresenta un territorio dal grande potenziale archeologico. Questa promessa di importanti ritrovamenti deriva sia dalla sua scarsa esplorazione, dovuta all’instabile contesto geopolitico, che dal suo ruolo cruciale nella cosiddetta “transizione neolitica”, ossia il passaggio da un’economia basata sulla caccia e la raccolta a un sistema produttivo fondato sull’agricoltura e il commercio.

E infatti, le ricerche in questa zona continuano a svelare incredibili tesori. Gli ultimi sono stati trovati da un team di ricercatori provenienti dall’Università di Heidelberg che, impegnato in una campagna di scavi in Iraq, ha rivenuto ampie porzioni di un rilievo monumentale che raffigura il sovrano dell’impero assiro del VII secolo a.C. insieme a due importanti divinità e altre figure.

La scoperta del rilievo monumentale a Ninive

Siamo in Iraq, dove un team di ricercatori, scavando nella sala del trono del Palazzo Nord del re Assurbanipal, nell’antica città di Ninive, odierna Mosul, ha trovato un rilievo monumentale scolpito su un’enorme lastra di pietra lunga 5,5 metri e alta tre metri, con un peso approssimativo di 12 tonnellate. Un evento eccezionale non solo per la grandezza del rilievo, ma anche per le scene rappresentate.

Come ha raccontato il responsabile degli scavi, il Prof. Dr. Aaron Schmitt dell’Istituto di Preistoria, Protostoria e Archeologia del Vicino Oriente Antico: “Tra le numerose immagini di rilievi dei palazzi assiri che conosciamo, non ci sono raffigurazioni di divinità maggiori. Questa è un’eccezione”.

Al centro del rilievo, infatti, il re Assurbanipal, l’ultimo grande sovrano dell’impero assiro, è affiancato da due divinità supreme: gli dei Ashur e Ishtar, dea patrona di Ninive. Entrambi sono seguiti da un genio pesce, che concede agli dei e al sovrano salvezza e vita, nonché da una figura di supporto con le braccia alzate, che molto probabilmente sarà ricostruita come uno scorpione-uomo.

Nei prossimi mesi, sulla base dei dati raccolti sul sito, i ricercatori studieranno in dettaglio la raffigurazione, il contesto del ritrovamento e pubblicheranno i risultati in una rivista scientifica.

Ritrovamento archeologico a Ninive

Fonte: Heidelberg University

Il rilievo trovato durante gli scavi

Cosa sappiamo del ritrovamento

Secondo il Prof. Schmitt, a capo della campagna di scavi, il monumentale rilievo si trovava originariamente in una nicchia di fronte all’ingresso principale della sala del trono, ovvero il luogo più importante del palazzo. I ricercatori dell’Università di Heidelberg, durante gli interventi di scavo, hanno scoperto i frammenti del rilievo in una fossa riempita di terra dietro questa nicchia.

Probabilmente fu scavata in epoca ellenistica, nel III o II secolo avanti Cristo. Secondo quanto ipotizzato dal Prof. Schmitt, il fatto che questi frammenti fossero sepolti è sicuramente uno dei motivi per cui gli archeologi britannici non li trovarono quando arrivarono qui più di cento anni fa. Ninive, infatti, fu scoperta per la prima volta nel 1847 dall’esploratore Austen Henry Layard: fu lui a scoprire i resti di due palazzi, uno dei quali appartenente al re Assurnasirpal II, del IX secolo a.C. Fra il 1845 e il 1851, nel corso di varie campagne, riportò alla luce anche diverse opere d’arte, oggi conservate nel British Museum di Londra.

L’Ente Statale Iracheno per le Antichità e il Patrimonio (SBAH), ha dichiarato che, appena sarà possibile, il rilievo verrà collocato nel suo sito originale e aperto al pubblico per le visite.

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Deserto della Giudea: scavi archeologici senza precedenti portano alla luce tesori inestimabili

Un team di ricercatori ha scoperto una strana struttura piramidale nel Deserto della Giudea, partecipando a una delle campagne archeologiche più ricche e affascinanti mai avvenute in questa zona. Ma non è finita qui perché, oltre a questa struttura realizzata con rocce tagliate a mano, ognuna delle quali pesa oltre 180 chilogrammi, sono stati rivenuti anche reperti eccezionali quali papiri greci, armi, vasi di bronzo, mobili e monete di notevole importanza storica.

Siamo in Israele, vicino a Nahal Zohar, e lo scavo è condotto dall’Israel Antiquities Authority in collaborazione con il Ministero del Patrimonio e con la partecipazione di centinaia di volontari locali.

La scoperta della struttura piramidale e dei reperti

I direttori dello scavo, Matan Toledano, il dott. Eitan Klein e Amir Ganor della Israel Antiquities Authority hanno dichiarato: “Si tratta di uno degli scavi più complessi, ricchi e affascinanti mai realizzati nel Deserto della Giudea e in Israele. Fin dalla prima settimana sono emerse scoperte rare e significative che offrono uno straordinario spaccato della vita quotidiana in questa regione oltre duemila anni fa“.

La struttura scoperta è alta cinque o sei metri. Inizialmente, il team pensava di aver trovato una tomba, ma successivamente, notando la forma delle mura originali, ha compreso che, in realtà, si trattava di un edificio, identificato come una fortezza risalente al periodo ellenistico. Tra le scoperte più sorprendenti, figurano anche documenti in papiro in lingua greca, monete di bronzo risalenti ai regni dei Tolomei e di Antioco IV, armi antiche, mobili in legno di 2.200 anni fa, tessuti colorati, gioielli, bottoni, utensili da cucina e molto altro.

È grazie al clima secco del deserto che questi reperti si sono potuti conservare in condizioni eccezionali e arrivare fino a noi.

Reperti scoperti nel Deserto della Giudea

Fonte: Israel Antiquities Authority

Un pezzo del papiro greco ritrovato durante gli scavi

Perché si tratta di una scoperta eccezionale

Questa fatta nel Deserto della Giudea rappresenta una scoperta eccezionale perché, come hanno dichiarato i ricercatori, sta modificando la comprensione storica del sito. In precedenza, infatti, si riteneva che risalisse al periodo del Primo Tempio, ma ora le evidenze suggeriscono che la struttura sia stata costruita in epoca ellenistica.

Il periodo ellenistico in questa regione, così chiamato per la pervasiva influenza greca, iniziò nel 332 a.C., quando la Palestina fu conquistata dal re macedone Alessandro Magno. Successivamente, la regione più ampia fu governata da due imperi macedoni: il regno tolemaico d’Egitto, una dinastia fondata da Tolomeo I Sotere nel 305 a.C., e il regno seleucide, fondato da Seleuco I Nicatore nel 312 a.C. Entrambi i fondatori avevano prestato servizio come generali sotto Alessandro Magno.

Lo scopo di questa struttura piramidale rimane un enigma: i ricercatori ritengono che potrebbe essere stata
un punto di osservazione su una grande via commerciale, un sito funerario monumentale o un luogo cerimoniale. Il direttore dell’Autorità per le Antichità afferma che queste scoperte sono entusiasmanti, persino commoventi, e che la loro importanza per la ricerca archeologica e storica è enorme.

Reperti trovati durante gli scavi nel Deserto della Giudea

Fonte: Israel Antiquities Authority

Altri reperti trovati durante gli scavi nel Deserto della Giudea
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Scoperta ad Áspero l’incredibile sepoltura di una donna di 4.500 anni fa con capelli e unghie intatti

Sulle sponde della costa centrale del Perù, la città archeologica di Áspero ha appena svelato uno dei suoi più affascinanti segreti. La squadra di archeologi guidata dalla dottoressa Ruth Shady ha lavorato nella zona archeologica di Caral permettendo il ritrovamento di una donna, di età tra i 20 e i 35 anni, all’interno della Huaca de los Ídolos, una costruzione cerimoniale monumentale.

A rendere straordinario il ritrovamento non è tanto la scoperta in sé quanto la conservazione del corpo: pelle, capelli e unghie sono giunti intatti a differenza di altri corpi riconoscibili solo per il cumulo di ossa.

Il ritrovamento della donna Caral sepolta in Perù

La zona archeologica Caral ha appena rivelato un’importante scoperta. La squadra diretta dalla dottoressa Ruth Shady ha fatto sì che all’interno della Huaca de los Ídolos emergesse il corpo (perfettamente conservato) di una donna di età tra i 20 e i 35 anni. Il ritrovamento è particolarmente prezioso: la sepoltura testimonia il rituale ricco e raffinato in cui il corpo veniva avvolto in tessuti di cotone e stuoie di giunco, mentre un pannello ricamato con piume colorate di guacamayo lo adornava, posato su un intreccio di fibre vegetali. La testa con ancora tutti i capelli è stata decorata da un copricapo di fibre intrecciate e fili avvolti a spirale: l’accessorio è tra le testimonianze più antiche dell’arte plumaria andina.

Non una donna comune, ma una figura potente, probabilmente elitaria. A svelarlo il corredo funebre ritrovato dagli archeologi. Ai piedi del corpo quattro ceste di giunco, una conchiglia di caracol proveniente dall’Amazzonia, un becco di tucano ornato con perline verdi e marroni, strumenti per tessitura, una rete da pesca, una trentina di patate dolci e addirittura strumenti tessili. Nell’area superiore sono stati invece posati tre contenitori a forma di bottiglia e un’altra cesta su una stuoia di totora. Gli oggetti testimoniano il rango della defunta e raccontano molto della civiltà a cui apparteneva.

L’importanza del ritrovamento

La scoperta rafforza la teoria legata alla gerarchia sociale della civiltà Caral in Perù. Gli archeologi sono convinti che la ricchezza e lo stato di appartenenza facessero variare il tipo di corredo e il trattamento cerimoniale della sepoltura.

Áspero non è la prima volta che offre questa tipologia di testimonianze, specialmente con figure femminili di rilievo. Già nel 2016 era stata ritrovata la Dama de los Cuatro Tupus e nel 2019, invece il Varón de Élite. I ritrovamenti sono datati più o meno nello stesso periodo, raccontando molto della struttura sociale elitaria simile a quella documentata e postuma di La Galgada.

Áspero: il sito archeologico

Áspero è il sito archeologico che sorge in prossimità di quella che era la città portuale scelta dalla civiltà Caral per vivere. Si estende per la bellezza di 18,8 ettari e dista meno di 700 metri dall’oceano. Gli studi hanno permesso di rilevare fino a 22 complessi architettonici che mostrano un passato glorioso e piuttosto avanzato.

Gli abitanti erano esperti pescatori e commercianti; le reti di scambio interculturale, pacifiche e vantaggiose, collegavano il sito alla costa e alle lontane regioni andine e amazzoniche. Dopo essere stata usata per molti tempi come discarica municipale, nel 2005 le cose sono cambiate diventando un fulcro di studio e valorizzazione e permettendo i ritrovamenti che oggi stanno riscrivendo la storia.

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Quando la roccia diventa preghiera: il mistero delle Grotte di Longmen

Ci sono luoghi che fanno battere il cuore anche a distanza di secoli dalla loro creazione. Tra questi ci sono le Grotte di Longmen, un sito archeologico speciale diventato un luogo di culto e preghiera. Qui silenzio e fede vanno a braccetto unendosi alla natura che rende la porta del drago ancora più unica. La roccia smette di essere solo materia e diventa messaggera.

Scoprire le Grotte di Longmen

In Cina esistono luoghi ricchi di mistero e spiritualità ma uno brilla tra tutti: si tratta delle Grotte di Longmen, conosciute anche con il soprannome di “porta del drago”. Questo luogo, fatto di pietra e poesia, si trova a dodici chilometri da Louyang nella provincia di Henan e fa schiudere davanti agli occhi un paesaggio che sembra sospeso e lascia tutti a bocca aperta. Il varco naturale ha affascinato letterati, pellegrini e sognatori fin dai tempi antichi e ancora oggi ha un grande appeal.

Annoverate tra le meraviglie scolpite della Cina, insieme ai complessi Mogao e Yungan, hanno la capacità di lasciare sopraffatto chiunque le visiti. Reverenza e stupore sono le emozioni più comuni nell’osservare il chilometro di pareti rocciose in cui si snodano oltre 2345 tra grotte e nicchie in cui sono custodite 10.000 statue di Buddha e dei suoi discepoli. A tutto ciò si aggiungono migliaia di iscrizioni che narrano di fede, arte e scienza.

Il sito ha richiesto oltre quattro secoli di lavoro per poter essere realizzato e ha coinvolto sei dinastie, oltre ad infinite generazioni di artisti e devoti. Un vero e proprio capolavoro che ha reso le Grotte di Longmen un muse o a cielo aperto in cui maestria scultorea e spiritualità vanno a braccetto. I viaggiatori hanno l’opportunità di viaggiare tra le diverse epoche più floride della cultura cinese.

Non possiamo definirlo semplicemente un sito archeologico, è un luogo in cui natura e opera umana danzano all’unisono. La bellezza di queste grotte è universale e senza tempo tanto che dal 2000 sono state riconosciute come Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.

Scoprire il sito Unesco delle Grotte di Longmen in Cina

Fonte: iStock

Statue di Buddha scolpite nelle grotte di Longmen

Grotta centrale di Binyang

Tra le prime attrattive da non perdere c’è la Grotta centrale di Binyang, un gioiello appartenente alla dinastia Wei settentrionale. La figura centrale è dedicata a Buddha Sakyamuni, raffigurato con tratti solenni e uno sguardo che sembra custodire il segreto della compassione universale. Accompagnano la statua due leoni di pietra che vegliano fieramente ai suoi piedi mentre la presenza di discepoli e Bodhisattva si dispongono ai lati. A questo punto non resta che alzare gli occhi: sul soffitto le figure di apsaras fluttuano in un eterno volo di grazia e mistero.

Tempio di Fengxian

Proseguendo la passeggiata si incrocia il tempio di Fengxian. La grotta più grande del sito è stata realizzata durante la dinastia Tang. Possiamo dire con certezza che qui la grandezza dell’arte scultorea ha raggiunto il suo apice con il Buddha Losana alto oltre 17 metri. La statua lo mostra seduto sereno su un trono di loto, con un sorriso delicato e rassicurante sul volto. Il luogo ha attirato tantissimi visitatori tra cui l’imperatrice Wu Zetian che ha preso parte a cerimonie solenni quali la presentazione della luce, un rito che celebrava la compassione di Buddha.

Grotta di Guyang

Non la più grande ma la più antica e densamente ricca di significato: la grotta di Guyang è uno scrigno di arte e custodisce al suo interno centinaia di statue con nomi di devoti incisi dagli artigiani.

Dove si trovano e come raggiungere le Grotte di Longmen

Le Grotte di Longmen si trovano poco distanti dalla città di Luoyang, circa 12 chilometri di tragitto. Il luogo simbolo della regione di Henan in Cina sorge lungo le scogliere calcaree che costeggiano il fiume Yi e rappresentano uno dei siti di arte buddhista più rilevanti in Cina. Per raggiungerle dall’Italia servirà volare verso Pechino, Shanghai o Xi’an, e da lì prendere un volo interno o un treno ad alta velocità per Luoyang. A quel punto tramite treno in breve distanza si raggiungerà il sito, oppure è possibile utilizzare un autobus. Esistono anche tour di gruppo che conducono sul posto e raccontano il luogo con maggiori dettagli.

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Dopo 140 anni, a Cipro è stato riscoperto il santuario perduto di Apollo con tanti tesori archeologici

Sono passati ben 140 anni da quando l’archeologo tedesco Max Ohnefalsch-Richter portò avanti una campagna di scavo vicino all’antica città-regno di Tamasso, a Cipro. In tutto questo tempo, lo scavo è stato ricoperto nuovamente dalla sabbia e dimenticato…fino ad oggi. Il team di archeologi, anche questo proveniente dalla Germania, non solo ha riportato alla luce l’antico santuario dedicato ad Apollo, ma ha anche esposto i numerosi tesori trovati al suo interno: frammenti di statue dall’inestimabile valore.

La riscoperta dell’antico santuario di Apollo

Situato nella valle di Frangissa a Cipro, vicino al villaggio di Pera Orinis, il santuario di Apollo era uno dei più ricchi santuari rurali della regione. Il primo archeologo a scoprirlo, Ohnefalsch-Richter, trovò centinaia di statue votive, alcune di dimensioni colossali. Tuttavia, nel corso degli anni, il sito fu interrato e dimenticato.

La situazione cambiò nel 2021, quando un team di archeologi provenienti dalle Università di Francoforte e Kiel/Würzburg iniziarono a scavare nuovamente il santuario. Dopo anni di lavori, oggi hanno rivelato grandi sezioni del santuario con fondamenta strutturali, il cortile delle dediche e oltre 100 basi di statue, la maggior parte delle quali di grandi dimensioni.

Tra gli altri reperti del santuario citiamo anche piccoli carri, cavalieri e figure di guerrieri in terracotta, oltre a terrecotte cave di grande formato.

L’importanza di questa scoperta

Si tratta di una scoperta importante per diversi motivi, a partire dal fatto che i frammenti scoperti probabilmente aiuteranno a restaurare diverse statue ora conservate nel Museo di Cipro e nel Royal Ontario Museum di Toronto, offrendo agli studiosi la possibilità di riassemblare figure incomplete da più di un secolo.

Tra le scoperte più recenti, ci sono pezzi di statue in calcare con piedi di dimensioni gigantesche, a testimonianza dell’esistenza di enormi statue maschili del periodo arcaico (VII-VI secolo a.C.). Le uniche rappresentazioni colossali conosciute a Frangissa fino ad allora erano in terracotta, ad esempio il famoso “Colosso di Tamasso”.

Oltre alle statue, gli archeologi hanno rinvenuto una ricca varietà di offerte votive mai registrate prima nel sito. Queste includono amuleti egizi realizzati in faïence, un materiale ceramico smaltato utilizzato nell’antico Egitto nei rituali sacri, e perle di vetro marmorizzato. La loro presenza suggerisce complessi scambi interculturali e sottolinea la più ampia importanza religiosa del santuario.

Ci sono anche prove di significativi sviluppi architettonici: un vasto cortile peristilio fu costruito accanto all’area votiva, probabilmente per banchetti rituali o simposi. Questa scoperta aiuta a collocare il santuario nel suo contesto non solo come complesso religioso, ma anche come luogo di incontro sociale e cerimoniale. Per gli archeologi, questa scoperta offre un’eccezionale opportunità per documentare e studiare elementi architettonici che erano stati scarsamente analizzati nello scavo del XIX secolo eseguito da Ohnefalsch-Richter.

Grazie all’utilizzo di tecniche moderne e a un approccio accademico mirato, la scoperta dell’antico santuario di Apollo a Frangissa potrebbe ridefinire un capitolo fondamentale nella storia dell’archeologia cipriota, collegando l’antica vita rituale, la scultura monumentale e lo scambio culturale internazionale all’interno di uno spazio sacro rimasto nascosto per quasi 140 anni.

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Cosa vedere a Taranto: il fascino della Città dei due mari

Affacciata tra due specchi d’acqua, Taranto è una città sospesa tra mito e storia, tra vento salmastro e secoli di civiltà. Non è solo un capoluogo pugliese affacciato sull’azzurro del Mediterraneo, ma un luogo che conserva nel suo DNA l’impronta dei grandi imperi che l’hanno attraversata. Viene spesso chiamata la Città dei due mari, per la particolare posizione geografica tra il Mar Grande e il Mar Piccolo, ma è anche nota come la Città spartana, l’unica colonia fondata dagli Spartani al di fuori della Grecia.

Fare tappa qui significa intraprendere un viaggio nei secoli, al cospetto di templi dorici, castelli aragonesi, necropoli antiche e chiese barocche, ma anche lasciarsi sorprendere da architetture moderne che si riflettono sull’acqua.

8 cose da vedere a Taranto

Taranto, insomma, è un racconto da vivere, una città che parla con la pietra, il vento e il mare. Ogni angolo custodisce una storia e ogni scorcio è una finestra aperta su un passato affascinante.

1. Il Castello Aragonese

Appena si arriva sull’isola del centro storico, non si può non rimanere colpiti dalla maestosità del Castello Aragonese, noto anche come Castel Sant’Angelo. La posizione strategica, all’estremo lembo della Città Vecchia, ne svela subito la funzione difensiva. Le sue origini risalgono addirittura al periodo bizantino, intorno al IX secolo, quando si avvertiva la necessità di proteggersi dagli attacchi provenienti dal mare. Le torri originarie erano alte e snelle, perfette per respingere gli assalti con ogni mezzo possibile: dalle frecce alle pietre, fino all’olio bollente.

Ma è nel Quattrocento che il castello assume l’aspetto che conosciamo oggi. Ferdinando II d’Aragona, sovrano cattolico, ne promosse l’ampliamento, rendendolo una fortezza ancora più imponente, con ben sette torri, tra cui il celebre Rivellino, progettato per garantire una via di fuga sicura in caso di assedio.

2. La Città Vecchia di Taranto

Sospesa nel tempo, la Città Vecchia è l’anima autentica di Taranto. Un labirinto di vicoli, stradine strette e tortuose, cortili e piazzette che si estendono su un’isola collegata alla terraferma da due ponti: il Ponte di Pietra e il Ponte Girevole.

Tra un murales colorato e una chiesa barocca, si scorgono ristorantini nascosti e botteghe che resistono al tempo. E proprio qui, a pochi passi dal Palazzo di Città, si ergono due antiche colonne doriche: sono ciò che rimane del Tempio di Poseidone, costruito prima ancora dei templi di Paestum e Siracusa.

3. La Chiesa di San Domenico Maggiore

Lungo via Duomo, nel cuore pulsante del borgo antico, si apre la facciata sobria ma affascinante della Chiesa di San Domenico Maggiore. A distinguerla all’istante è la scalinata a forbice che sembra invitare il visitatore a salire.

La chiesa, per secoli sede della Confraternita dell’Addolorata, custodisce uno dei simboli più amati dai tarantini: la statua della Madonna dell’Addolorata, che ogni giovedì santo percorre in processione le strade della città, in un rito sentito e suggestivo. L’interno, con altare barocco, racconta la devozione profonda che lega la comunità al suo passato spirituale.

4. Il Ponte Girevole

Il moderno Ponte Girevole a Taranto

Fonte: iStock

Veduta del Ponte Girevole

È impossibile pensare a Taranto senza evocare il celebre Ponte Girevole, che fin dal 1887 unisce il borgo antico al borgo nuovo. Non è solo un’infrastruttura, ma un simbolo dell’identità tarantina. Lungo quasi 90 metri, un tempo si apriva grazie a un meccanismo manuale di leve e perni che consentiva il passaggio delle navi militari verso l’Arsenale.

Oggi, modernizzato con un sistema elettrico, continua a stupire ogni volta che si apre, dividendo le due sponde come per magia. Attraversarlo a piedi è un “piccolo rito” per chiunque voglia immergersi nella vita quotidiana della città, ascoltando il fruscio del mare e il passaggio delle imbarcazioni sottostanti.

5. La Cattedrale di San Cataldo

Nel centro della Città Vecchia, la Cattedrale di San Cataldo si impone con la sua presenza solenne: è la più antica cattedrale della Puglia, risalente al X secolo, costruita su fondamenta ancora precedenti. L’interno, a tre navate, è un viaggio nel tempo: dal nucleo bizantino originale alle trasformazioni successive che l’hanno arricchita di elementi romanici e barocchi.

La facciata settecentesca, dall’eleganza sobria, anticipa l’atmosfera raccolta dell’interno, dove riposano alcune delle figure più importanti del passato cittadino. Il vecchio campanile normanno non esiste più, distrutto da un terremoto nel 1400, ma la memoria della sua esistenza è ancora viva tra le pietre e nei racconti.

6. Il Museo Archeologico Nazionale

Per comprendere fino in fondo la grandezza di Taranto, non si può prescindere da una visita al Museo Archeologico Nazionale. Al suo interno, ospitato nell’antico convento dei Frati Alcantarini, si dispiega un patrimonio archeologico di straordinaria importanza. Il primo piano accoglie reperti del passato greco, romano e bizantino della città, tra anfore, monete, statue e gioielli che testimoniano la ricchezza e la raffinatezza della Taranto antica.

Il secondo piano, più recente, svela invece le origini più remote del territorio, con reperti risalenti al Neolitico. Una sezione speciale è dedicata alla storia della città, in un percorso affascinante che accompagna il visitatore dagli insediamenti preistorici fino al IV secolo a.C.

7. Le Necropoli greco-romane

Sotto la superficie di Taranto si nasconde un’altra città, fatta di silenzi e di memoria: è quella delle necropoli greco-romane. Sparse in vari punti dell’abitato moderno, le aree archeologiche raccontano molto del rapporto che gli antichi avevano con la morte e l’aldilà.

La necropoli di via Marche, le tombe di via Umbria e di via Sardegna, fino alla celebre Tomba degli Atleti di via Francesco Crispi, sono state oggetto di importanti scavi che hanno riportato alla luce oltre 160 sepolture. Ogni tomba custodisce un mondo: corpi deposti in posizione fetale, urne cinerarie, oggetti quotidiani, monili e vasellame, tutto pensato per accompagnare i defunti nel loro ultimo viaggio.

8. La Concattedrale Gran Madre di Dio

E infine, a ricordarci che Taranto non vive solo nel passato ma guarda anche al futuro, c’è la Concattedrale Gran Madre di Dio. Nel Borgo Nuovo, è un esempio di architettura religiosa moderna, concepita negli Anni Settanta con uno stile che rompe ogni schema. Dall’esterno, la chiesa appare come una vela spiegata, una struttura leggera e ariosa in acciaio e cemento che si riflette sull’acqua, simbolo di spiritualità proiettata nel tempo presente.

All’interno, l’atmosfera è altrettanto essenziale, quasi minimalista: niente affreschi, niente cupole barocche, ma pareti traforate che lasciano filtrare la luce.

Cosa fare a Taranto: esperienze da vivere

Limpido mare a Marina di Pulsano, Taranto

Fonte: iStock

Il mare cristallino di Marina di Pulsano

Scoprire Taranto è anche un invito a lasciarsi coinvolgere da esperienze autentiche, che permettono di entrare in contatto con la natura, il mare e le tradizioni più radicate di questo angolo di Puglia.

Che siate amanti della biodiversità, appassionati del mare oppure in cerca di emozioni, Taranto ha molto da offrire. Ecco tre esperienze che vale davvero la pena vivere.

Visitare la Riserva Naturale “Palude La Vela”

Poco lontano dal centro abitato, sulle sponde quiete del Mar Piccolo, si cela un angolo di natura ancora selvaggia e preziosa: la Riserva Naturale “Palude La Vela”, tutelata e gestita dal WWF di Taranto, uno degli ecosistemi più variegati della zona, dove acqua dolce e salmastra si incontrano creando un habitat perfetto per una fauna straordinaria.

Tra i canneti che ondeggiano nel vento e le pinete spontanee, si possono scorgere uccelli affascinanti come le cicogne, i fenicotteri e i falchi pescatori. E non mancano i rettili, come le tartarughe palustri e qualche vipera ben nascosta tra l’erba alta, oltre a piccoli mammiferi come scoiattoli, arvicole e topi quercini.

La sensazione, mentre si cammina lungo i sentieri immersi nella vegetazione o si osservano gli uccelli dai capanni per il birdwatching, è quella di essere entrati in una dimensione parallela, dove tutto è più silenzioso, lento, autentico.

Godersi il mare d’estate

Taranto d’estate ha il profumo del sale sulla pelle, il suono delle onde che accarezzano la riva e quella luce intensa che sembra disegnare il paesaggio a ogni ora del giorno. Quando il sole splende alto, non c’è niente di meglio che raggiungere le spiagge della zona, veri e propri gioielli incastonati lungo la costa ionica.

La Spiaggia di Lido Silvana, forse la più conosciuta, è un piccolo paradiso per chi ama la sabbia fine e l’acqua limpida. Ma anche la spiaggia di San Vito, frequentata soprattutto dai tarantini, ha un fascino tutto suo, più riservato e genuino. E ancora Chiatona, ideale per chi desidera un angolo tranquillo dove lasciarsi cullare dalle onde.

Proseguendo verso sud, la costa regala scenari da cartolina: Marina di Pulsano e Marina di Lizzano incantano con dune morbide, mare trasparente e sabbia chiara, perfette per lunghe giornate al sole o per nuotate rilassanti. E se si vuole andare ancora oltre, ecco Campomarino, immerso nella macchia mediterranea, e San Pietro in Bevagna, dove l’acqua è così limpida da sembrare una piscina naturale.

Avvistare i delfini

In pochi luoghi al mondo il legame tra uomo e mare è così profondo come a Taranto. E a ricordarlo, in modo simbolico e potente, c’è il delfino, animale da sempre protagonista dello stemma cittadino e legato al mito della fondazione stessa della città.

Oggi quel legame continua a vivere anche grazie a un progetto straordinario: la Jonian Dolphin Conservation. L’associazione si occupa da anni di monitorare, studiare e proteggere i cetacei che abitano le acque del Golfo di Taranto. Ma soprattutto, rende possibile per chiunque un’esperienza unica: salire a bordo del catamarano Taras e partire per una vera e propria spedizione scientifica in mare aperto.

Durante le escursioni, si possono osservare da vicino i delfini nel loro habitat naturale. Nuotano liberi, giocano tra le onde, accompagnano la barca in un silenzioso spettacolo che commuove e stupisce. A volte compaiono anche altre specie marine, così da rendere il viaggio ancora più sorprendente.

Come arrivare

Raggiungere Taranto è semplice, sia che si scelga di viaggiare in treno che in auto. I collegamenti ferroviari la uniscono alle principali città del sud Italia: è possibile arrivare da Bari, Brindisi o dalla Calabria, grazie alle linee ferroviarie ionica e adriatica che servono quotidianamente la stazione.

Per chi preferisce l’auto, l’Autostrada A14 rappresenta la via principale. Chi proviene dal nord può uscire allo svincolo di Massafra e proseguire in direzione Taranto. Anche la rete delle strade statali offre soluzioni comode e ben collegate: la S.S. 106 Ionica accompagna lungo il versante calabrese, la S.S. 100 arriva direttamente da Bari e la S.S. 7 Appia consente un collegamento diretto con Brindisi.

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Nel silenzio della terra, Bordeaux svela i segreti di una necropoli merovingia

Nel pieno centro di Bordeaux è stata fatta una straordinaria scoperta. Durante lavori di riqualificazione urbana nei pressi della centrale chiesa di Sainte-Croix è stata rinvenuta una necropoli risalente all’epoca merovingia. Il ritrovamento ha destato grande interesse per la sua rilevanza storica e archeologica, gettando nuova luce sulla vita e la morte nella città francese altomedievale e sulla persistenza dell’uso urbano e religioso di uno spazio attraverso i secoli di storia.

Un patrimonio sepolto riemerge dopo secoli

Nel corso degli scavi, gli archeologi hanno individuato 59 sarcofagi databili al V-VII secolo d.C., appartenenti a una necropoli merovingia. Insieme a questi sono state ritrovate anche diverse strutture funerarie – strutture murarie in pietra bianca ben conservate nonostante la loro posizione tra i 30 centimetri e 1,80 metri di profondità sotto il livello stradale – alcune delle quali risalenti addirittura all’età moderna.

Secondo Laurent Guyard, responsabile del servizio archeologico di Bordeaux-Métropole, l’antica chiesa di Sainte-Croix venne fondata proprio in epoca merovingia, poco lontano dal nucleo originario della città romana. Durante l’età moderna poi la necropoli si sviluppò enormemente.
I resti sono stati rinvenuti infatti in un’area a pochi metri dalla chiesa, un sito che nei secoli ha mantenuto un uso cimiteriale fino al XVIII secolo.

Mille anni di storia emergono così riportando indietro nel tempo la città di Bordeaux.

L’epoca merovingia: tra transizione e fondazione

L’epoca merovingia, compresa tra il V e l’VIII secolo d.C., rappresenta un periodo di assoluta trasformazione per l’Europa occidentale.

Avvenuta in seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, questa fase storica vide l’emergere dei Franchi, una popolazione germanica che diede origine alla dinastia dei Merovingi.
Guidati da re come Clodoveo I, i Merovingi posero le basi della futura Francia medievale, rafforzando potere politico e religione cristiana.

Sebbene spesso considerato un periodo oscuro, il mondo merovingio fu ricco di fermenti culturali, attività artigianali e pratiche funerarie abbastanza complesse, come dimostra proprio la recente scoperta.

Il contesto storico e urbano

La necropoli sorge in un’area centrale di Bordeaux, oggi interessata da un piano di rinnovamento urbano che prevede di piantare alberi e creare nuovi spazi verdi per la città e i suoi abitanti.

ritrovamento di una necropoli merovingia

Fonte: iStock

Chiesa di Sainte-Croix a Bordeaux

Il ritrovamento ha portato alla temporanea sospensione dei lavori, consentendo agli archeologi di approfondire lo studio delle tombe.

Le autorità locali hanno deciso di rendere visibile il sito al pubblico per un periodo limitato, prima della sua copertura definitiva.
I resti – visibili infatti direttamente dalla strada – saranno accessibili ogni mercoledì fino alla fine di maggio, prima dell’avvio dei lavori di riqualificazione urbana.
Le attività di scavo continueranno poi fino all’estate 2026: data in cui l’intera area sarà restituita all’uso cittadino.

Un frammento di storia restituito alla città

La scoperta, presentata dal team di archeologi incaricato degli scavi preliminari – iniziati un anno fa su una zona di circa 2.700 metri quadrati nei pressi del Port de la Lune – , offre una rara testimonianza della vita e delle pratiche funerarie durante l’epoca merovingia, uno dei periodi meno documentati della storia europea.
Grazie a questo ritrovamento, Bordeaux, città francese capitale del vino, arricchisce il proprio patrimonio culturale con un ulteriore tassello di memoria collettiva.

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Cavallo Bianco di Uffington, un misterioso gigante preistorico di pietra

Nel cuore delle colline dell’Oxfordshire – sul pendio della White Horse Hill – in Inghilterra, si staglia una figura enigmatica e affascinante: il Cavallo Bianco di Uffington, una figura preistorica.

Questa imponente rappresentazione stilizzata di un cavallo incisa con solchi nel terreno profondi un metro che hanno così messo in mostra il gesso bianco della collina, misura 114 metri di lunghezza e 34 di altezza. Risalendo a un’epoca compresa tra il 1380 e il 550 a.C., questa è la più antica figura collinare della Gran Bretagna. La sua origine, funzione e significato continuano a suscitare interrogativi e teorie, alimentando leggende e studi archeologici.

La migliore vista del geoglifo si ottiene direttamente dall’altro lato della valle, vicino ai villaggi di Great Coxwell, Longcot e Fernham dalla cima di Dragon Hill.
Il sito è di proprietà del National Trust for Places of Historic Interest or Natural Beauty, che lo gestisce.

Origine e datazione

Il Cavallo Bianco di Uffington è stato datato tra il 1380 e il 550 a.C. grazie alla tecnica della luminescenza otticamente stimolata – OSL -, applicata per la prima volta negli anni ’90 e aggiornata nel 2024 con nuove analisi. Questi studi hanno confermato che la figura risale all’Età del Bronzo o al primo periodo dell’Età del Ferro, smentendo le ipotesi che la collocavano in epoche successive.

La sua creazione potrebbe essere legata a pratiche rituali o a simboli tribali associati alla vicina fortezza di Uffington Castle.

Significato e interpretazioni

Il significato del Cavallo Bianco rimane oggetto di dibattito.
Alcuni studiosi lo associano alla dea celtica Epona, protettrice dei cavalli e simbolo di fertilità, mentre altri lo collegano al culto del dio solare celtico Belinos, suggerendo che la figura rappresenti un “cavallo solare”.

La sua posizione sulla collina e la visibilità limitata dal suolo suggeriscono un possibile significato rituale o religioso, destinato a essere osservato da lontano o dall’alto.​

Conservazione e restauri

Nel corso dei secoli, il Cavallo Bianco ha richiesto interventi periodici di manutenzione per preservarne la visibilità.

un posto incredibile da visitare in inghilterra

Fonte: iStock

Primitivo Cavallo bianco di Uffington, Inghilterra

Tradizionalmente, ogni sette anni si svolgeva una cerimonia chiamata “scouring“, durante la quale la figura veniva ripulita e rinfrescata con nuovo gesso.

Nel 2024, un progetto congiunto del National Trust e dell’Oxford Archaeology ha riportato la figura alle sue dimensioni originali, dopo che studi avevano evidenziato un restringimento fino al 40% a causa dell’erosione e della crescita del manto erboso.

Leggende e cultura popolare

Il Cavallo Bianco dell’Inghilterra è avvolto da numerose leggende.
Una delle più note lo collega alla vicina Dragon Hill, dove si narra che San Giorgio abbia ucciso un drago, lasciando un’impronta sulla collina.

Altre storie lo associano a divinità celtiche o a simboli di fertilità. Nel corso del tempo, la figura ha ispirato opere letterarie, come “The Ballad of the White Horse” di G.K. Chesterton, e ha influenzato la cultura popolare, apparendo in romanzi contemporanei e sulla copertina dell’album “English Settlement” del gruppo XTC.

Il Cavallo Bianco di Uffington continua ancora oggi a suscitare fascino e curiosità, rappresentando un legame tangibile tra il presente e le misteriose civiltà del passato. La sua conservazione e le continue ricerche archeologiche ne fanno un simbolo duraturo della ricca eredità preistorica della Gran Bretagna.

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Chichén Itzá, il sito archeologico Maya è tra le sette meraviglie del mondo

Le meraviglie del mondo? Sono sette. Tra queste c’è Chichén Itzá, il sito archeologico che viene persino inserito tra da molte coppie gli itinerari dei viaggi di nozze in Messico. Alle sue spalle ha una storia affascinante, a tratti cupa, ma davvero unica nel suo genere.

La storia di Chichén Itzá

Il Messico è ricco di luoghi suggestivi ma Chichén Itzá li batte tutti. La città Maya sorge nello Yucatán ed è ad oggi uno dei siti archeologici più visitati al mondo. Rientra tra le sette meraviglie ed è anche un patrimonio UNESCO dal 1988. Tutti questi titoli sottolineano quanto sia speciale. Dopo essere stata scoperta dai conquistadores, è finita nel dimenticatoio della giungla finché Lloyd Stephens e Frederick Catherwood non l’hanno riportata alla luce.

Cosa vedere a Chichén Itzá

Tante le cose da vedere a Chichén Itzá ma la prima che spicca tra tutte è la piramide di Kukulkán soprannominata anche el castillo. Spicca con i suoi 24 metri d’altezza e una scalinata su ciascuno dei quattro lati. Non solo un prezioso edificio scolpito in pietra ma un calendario scolpito. 91 i gradini per lato che con quello in cima arrivano a 365, ovvero il numero di giorni dell’anno solare. Ma la vera chicca si manifesta durante gli equinozi: al tramonto le ombre creano l’illusione di un serpente piumato che si snoda lungo i gradini; si tratta di Kukulkán, la divinità Maya della fertilità e della rinascita, che torna sulla Terra due volte l’anno.

Chichén Itzá piramide di Kukulkán

Fonte: iStock

La piramide di Kukulkán è tra le cose più belle da scoprire nel sito archeologico di Chichén Itzá

Altrettanto da non perdere il Cenote Sagrado: per i Maya rappresentava un portale verso l’aldilà. È proprio qui che venivano compiuti i rituali per comunicare con le divinità; nel fondale sono stati trovati resti di bambini e oggetti preziosi offerti agli dei, segnale che i sacrifici (anche umani) facevano parte della tradizione. Non meno importante il campo del gioco della palla di Chichén Itzá; si tratta di uno dei più grandi di tutta la Mesoamerica ed è proprio qui che è nato il calcio, seppur con una motivazione ben diversa da quello del gioco di squadra di oggi.

Che i Maya fossero appassionati di stelle è più che evidente: oltre al calendario è possibile scoprire da vicino El Caracol, l’osservatorio astronomico con una particolare forma circolare e finestre strategicamente orientate per studiare i movimenti celesti. Tra i luoghi cult di Chichén Itzá si aggiunge il tempio dei guerrieri in cui due colonne scolpite a forma di serpente fiancheggiano l’ingresso, simboli di forza e sacralità. A renderlo ancora più suggestivo ci pensa la sala delle mille colonne dove numerosi pilastri rivelano quello che un tempo poteva essere un centro cerimoniale o un mercato coperto.

Dove si trova e come arrivare a Chichén Itzá

Chichén Itzá è un’antica città Maya nello Yucatan. Il sito archeologico del Messico si trova a circa 30 minuti di strada da Valladolid. Come puoi raggiungerla? Con la tua auto a noleggio, oppure aggregandoti ai tour organizzati dalla città di Valladolid o ancora sfruttando i collegamenti dati dai mezzi pubblici.